È la terza notte a Bogotà e le prime due le ho passate dormendo alle sette di sera non so se per reazione al freddo o al jet-leg. Verso mezzanotte il ristorante birreria dove mi ospitano chiude e i lavoratori in cerca di svago decidono di uscire. In bicicletta.

Bogotà si trova a 2600 metri al principio della cordigliera delle Ande. Arrivando il 20 luglio da Firenze il cambio di temperatura è drastico. Non sono temperature glaciali però di notte scendono sotto i dieci gradi. In più nei pressi dei tremila metri lo sforzo fisico si sente ben più profondamente. Insomma usciamo in bicicletta e per i primi 5 minuti boccheggio, mi congelo e passo dal preoccupato all’impaurito varie volte.

Le strade sono deserte. Letteralmente. Non ci sono nemmeno macchine a bordarle visto che tutti a notte la mettono in garage, in salotto, o dove possono. Unici a muoversi silenziosi nella notte sono gli “habitantes de la calle”. Cioè persone che passano da un cassonetto all’altro, da una busta nera alla prossima, muovendosi tutta la notte per non congelarsi. Si portano dietro dei carretti, tipo quelli della spesa o dei mercati. Li riempiono di scatole di cartone con cui ne fanno anche le pareti, cosi che da piccoli carretti diventano grandi ombre nella notte, carovane fatte di niente intente alla produzione di calore.

Siamo cinque biciclette e uno skateboard le cui ruote raschiano l’asfalto e risuonano per tutta la via. Mi scaldo sempre di più e comincio ad apprezzare il momento. La tranquillità della metropoli abbandonata. Il senso di dramma post apocalittico rimane però non mi atterrisce più come al principio. Durante il giorno queste stesse strade sono una foresta urbana di pedoni, biciclette, macchine e taxi con istinti tanto omicidi quanto suicidi. Ora siamo solo noi, con il rumore ripetitivo delle biciclette e le rigogliose piante tropicali, passando da un barrio all’altro in questa Bogotà che a volte sembra Londra, altre Vancouver, tanto diffuso è l’uso del mattoncino rosso nell’architettura.

Per attraversare i grandi viali sempre trafficati l’unico modo è salire sulle lunghe passerelle. Su una di queste la vista della città mi colpisce in tutta la sua infinità. Un mostro da dieci milioni di abitanti, ora addormentato però pronto a svegliarsi con le prime luci dell’alba. Oltre la distesa di cemento compaiono alla vista anche le fantastiche montagne che sono il vero monumento di questa città. Come anche il punto di riferimento in ogni spostamento e la fonte primaria di acqua e di meraviglia per i bogotani.

E quando arriviamo al bar con un gruppo jazz dal vivo che avevo fin da subito creduto un miraggio quasi mi dispiace.

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