La prima notte all’arrivo a Varanasi ho avuto un assaggio del buon cuore degli abitanti di questa città sacra ed anche dei suoi problemi.

Dalla stazione alla zona dell’albergo intanto è stata una piccola epopea. Trovare un tuktuk che ci facesse un prezzo decente ha preso svariate decine di minuti. Quando infine ho accettato che assieme a noi viaggiasse un altro passeggero non mi potevo aspettare che questo sarebbe stato uno dei più coloriti incontri avuti fin ora in viaggio. Vedo arrivare il mio guidatore con un uomo molto anziano appoggiato ad un bastone. Ha 85 anni e parla un ottimo inglese, per quanto cadenzato da una tosse profonda e torrenziale. Si presenta dicendo per prima cosa di essere un bramino, un prima casta. Seconda cosa detta elogia Hitler conversando con la mia amica tedesca. I suoi modi da prima casta perdono senso quando il guidatore strappa il cavo del cambio e ci ritroviamo con l’Ape Piaggio rigirata da un lato e l’uomo intento a lavorare alla sua pancia.

Arriviamo a Varanasi che sono le 10 passate. I vicoli che si dirigono verso il fiume sono troppo stretti per ogni tipo di veicolo con più di due ruote. E le mucche al pascolo non aiutano a renderli più ampi. Ci troviamo così a camminare per un dedalo di viuzze tutte identiche, zaino in spalla. Un uomo, come sempre accade, si offre di guidarci promettendo di non essere in cerca di denaro. Che significa: in cambio di qualche spicciolo. Senza di lui non saremmo mai arrivati. Inoltre, pochi passi fatti tra i vicoli e la luce se ne va. All’arrivo del buio tra queste strette pareti e i volti stranieri ho un attimo di gelo. Poi lampade e torce vengono accese e si prosegue. All’arrivo alla pensione Leela la porta è chiusa e per svegliare i gestori servono svariate urla e botte alla porta. Comunico che non ho intenzione di andare a letto senza aver prima mangiato qualcosa. Il treno infatti sarebbe dovuto arrivare in città intorno alle 5 del pomeriggio, ma i ritardi vari mi hanno fatto saltare ogni pasto della giornata. L’uomo che ci apre è un hindu dalla fronte segnata che ha passato i 50 anni ma ha un sorriso dolce, fanciullesco. È non molto alto e ben pasciuto, con una risata contagiosa. Invece di indicarci dove andare si prepara per venire con noi e guidarci. Nel suo povero inglese cita la parola cani per spiegare il perché. Mi sarà chiaro poi, la notte la città è in mano ai cani. In gruppo o solitari si fanno vera battaglia da un angolo all’altro della città. Le strade sono vuote, solo loro rimangono ed il ringhiare ricorda i lupi nei boschi, le iene della savana, le tigri bengalesi. Ogni notte si feriscono e uccidono e addentarsi nel loro territorio a notte fonda non è consigliato.

Funzionano come polizia notturna però, puoi star certo infatti che altri uomini non ne incontrerai. Quest’uomo invece ha lasciato il suo letto per guidarci fra le orde di cani alla ricerca di Tali e chapati caldi. Come fossimo nella foresta quando invece siamo in città.

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