La storia è gloriosa come i toni usati per raccontarla. O almeno questo è vero nel suo preambolo, poi l’Itala affronterà la Cina tra i volti sorpresi dei locali trainata “da un asinello, da un mulo, da un cavallo”.

Tutto ha inizio come ogni gara epocale e d’altri tempi dovrebbe fare: una vaga e misteriosa inserzione su un giornale francese. Le Matin indice una gara in automobile da Pechino a Parigi. L’anno è il 1907. Un viaggio transcontinentale mai tentato prima in macchina quando ancora le macchine fondamentalmente non esistono. Queste le poche righe dell’annuncio:

Quello che dobbiamo dimostrare oggi è che dal momento che l’uomo ha l’automobile, egli può fare qualunque cosa ed andare dovunque. C’è qualcuno che accetti di andare, nell’estate prossima, da Pechino a Parigi in automobile?

Ad avvistare la Grande Muraglia il Principe Scipione Borghese ci arriva in camicia slacciata trainando assieme ad i portatori la pesante e primitiva Itala, ma questo niente toglie al suo gesto di partire quasi alla cieca per l’avventura. Anzi, aggiunge al suo merito l’imbarcarsi in un’impresa quasi certamente irrealizzabile. Anche oggi percorrere l’intera tratta prevista come circuito per la gara non sarebbe per niente semplice, i confini politici a complicare le cose se non bastassero quelli fisici. Il Principe non si fa impressionare, vero progressista organizza il necessario per portare una macchina da due tonnellate in nave fino a Pechino, oggi Beijing. Ad accompagnarlo ci sono la moglie, altrettanto impavida ed energica, ed Ettore, autista e meccanico di famiglia. Questi in giovinezza è sopravissuto ad un incidente ferroviario dove il macchinista perde la vita. Ettore è suo figlio e fuochista del convoglio. L’incidente avviene non lontano dalla villa del Principe che porta i primi soccorsi. Ettore viene curato e poi accolto in casa come autista. Scipione possiede già ai tempi una delle prime macchine a benzina. Una sei cavalli col motore nel posteriore “e la trasmissione a cinghia che nelle salite aveva bisogno di essere impeciata per fare il suo dovere”. Il Principe ne nota il talento dopo che Ettore guida la sei cavalli fino alle tenute di famiglia in Ungheria e lo manda quindi a studiare meccanica prima alla FIAT, poi a Genova ai cantieri navali Ansaldo. “Da allora undici automobili hanno subito la sua signoria. È adesso al comando di tutte le macchine di casa Borghese […] e possiede un’officina dove lavora a riparare e a creare. A creare anche, perché Ettore inventa, modifica, applica nuovi apparecchi alle automobili, e potrebbe dare degli eccellenti consigli alle case costruttrici.”

Poi c’è l’altro impavido del gruppo, quello che invece del denaro investe nell’avventura il tempo di scrivere articoli e diario della gara. Questo è l’autore del libro, La metà del mondo vista da un automobile. Da Pechino a Parigi in sessanta giorni, Luigi Barzini. Visto che la gara altro non è che un viaggio e a dir poco pionieristico, Barzini diventa così fra i primi veri corrispondenti di viaggio che per via telegrafica spedisce le sue pagine di resoconto durante l’intero tragitto. Da Cina, Mongolia, Russia, Siberia, appena un telegrafo è disponibile Barzini comunica con Corriere della sera e Daily Telegraph le novità sull’Itala. Se non bastasse, sempre per il quotidiano italiano, prima di recarsi a Pechino ad incontrare il Principe si reca anche a New York e poi in Giappone. Tutto in nave e tutto affrontato senza esitazione alcuna come si addice alla poetica futurista dell’epoca. Seppure i toni del libro sono da Istituto Luce, non lo si pensi fascista. Dopo diversi anni spesi a New York, infatti, tornato in Italia nei primi anni ’30, assume la direzione de Il Mattino e cercando di dirigerlo come un giornale indipendente ottiene il licenziamento nel ’33. Nel ’38, all’età di 64 anni, viene inviato dal Popolo D’Italia a scrivere della guerra civile spagnola. È la settima e ultima guerra che Barzini osserva in prima persona e racconta ai lettori italani.

Il libro di Barzini è pubblicato nel 1908 in undici lingue. È un caso editoriale tanto quanto la gara stessa accende l’immaginazione degli europei e non solo. Colpisce quanto scritto nel testo oggi che la macchina è il più diffuso mezzo di trasporto. L’odierna urbanistica è pensata principalmente intorno alle macchine, gli spazi umani sono ritagliati secondo le esigenze di queste prima di ogni altro mezzo. Si è persa quindi la poesia di un oggetto ormai egemone, rumoroso e colpevole in quanto inquinante. Se non nelle giornate di sole quando chi può cala la capote, oppure ancora per i lunghi viaggi così detti on-the-road, in paesi i cui spazi sconfinati lo consentono. Nella quotidianità cittadina è difficile apprezzare la macchina, se ne sfrutta la comodità in un giorno di pioggia, ma certo non vi si trova poesia. L’Itala di Borghese, Ettore e Barzini è invece come un essere vivo, un cavallo da corsa. È un pezzo unico, si modella nell’adattarsi ai percorsi, fallisce. È privata del lusso della carrozzeria, i pochi pezzi sono al loro posto per una precisa funzione e spesso per più di una. Non ha una triste catena di montaggio alle spalle, né c’è bisogno di preoccuparsi per le emissioni nocive che sono ancora un’anomalia. È il simbolo della mobilità, della capacità di “andare ovunque”, più ancora del treno perché privata, individuale. Che l’Itala necessiti di mulo, cavallo e portatori per procedere poco importa, ciò che conta è che apra la via a nuove sfide.

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