Sulla parete dell’ultima carrozza del treno per Bagan da Mandalay c’è un piccolo geco che osserva dall’alto, appostato nei pressi di una lampada. Per lui un posto vale l’altro, finché ci sono abbastanza insetti da tramutare in cibo e non ci sono in giro troppi altri della sua specie a rubare la scena (e la cena). Che il treno abbia appena cominciato il suo percorso, della lunghezza di otto ore, da una regione ad un’altra del paese, per lui è cosa che ha poco valore e che neanche sa. Per noi esseri umani invece i luoghi sembrano contare non poco ed anche il modo in cui raggiungerli.

Il vagone che mi ospita, ultimo dei dodici che compongono il treno, ospita altre 34 persone. Più un bambino di circa due anni che dorme già, sdraiato per terra sopra un pezzo di tela cerata bianca. Un cencio come cuscino, o meglio, un longi, cioè la sorta di gonna con cui qui tutti gli uomini vestono e le cui trame non sfigurerebbero in un Hipster bar europeo. Il bimbo dorme a braccia aperte e pancia in su, come farebbe probabilmente nel suo letto di casa, qui però il letto non c’è e le mani strusciano sul nudo pavimento. Per dare l’idea di come questo sia basti dire che in Europa il pavimento di un vagone merci sarebbe più pulito. A volte si gratta gli occhi come volesse togliersi qualcosa dalla faccia, ma è la luce quel che cerca e non trova.

Il treno balla da destra a sinistra con tanta forza che chi sapeva ed è venuto preparato ha legato le valige alle assi di legno con dei legacci. Io devo fare attenzione continua che gli zaini non caschino schiacciando me e la coppia di signori che mi siede davanti. Il mio posto costa quattro dollari americani e così quello di tutti gli altri, o almeno credo, visto che in Myanmar i prezzi per stranieri sono quasi sempre fissati su misura. Anche questa volta sono quasi sicuro che il prezzo sia leggermente gonfiato. È certamente poco per me, ma forse una cifra da dover raccimolare con attenzione per chi con me viaggia. Specialmente se è tutta la famiglia a partire insieme. In Myanmar un’intera giornata di lavoro è pagata intorno ai due dollari.

L’andatura del treno è favolosamente lenta, spesso andando di corsa si andrebbe più rapidamente. Un Intercity italiano, di quelli un tempo tanto bistrattati che i finestrini si bloccavano sempre, ma si poteva fumare in bagno, credo andrebbe almeno il doppio. I picchi di velocità, intorno ai 60 Km l’ora poi fanno paura per quanto il treno sbanda e a dir poco sporadici, visto che ci si ferma ogni pochi minuti. Le fermate servono per caricare e scaricare merci, più che passeggeri.

Le sedute sono in legno, senza imbottitura. In stile panchina da parco, con le fenditure fra asse ed asse. Ogni due panche, l’una rivolta verso l’altra come di norma, c’è una finestra senza vetri. Quando piove troppo forte si può abbassare un’anta in legno. Fa un caldo tale però che per adesso tutto è spalancato e da fuori, di villaggio in villaggio, viene il suono dei canti buddisti che le pagode mandano in diffusione con i megafoni.

Dietro di me c’è una signora che fa parte delle così dette Figlie di Budda. Un ordine per sole donne, tutte vestite in rosa ed arancione. Si occupano prevalentemente di carità, ma portano la testa rasata come i monaci veri e propri. Sulla testa un panno, sempre rosa, semplicemente appoggiato, a sfidare la gravità. Mi guarda incessantemente da dietro la spalliera ed ogni volta che mi giro trovo il suo largo sorriso ad attendermi. Quando sono salito a bordo del treno tutti sono rimasti esterrefatti e non riuscivano a togliere gli occhi di dosso da me e la mia amica. L’addetto al vagone anche è stato con noi tutto il tempo, fino alla partenza. Non che ci fosse una particolare ragione, solo per la novità che costituivamo e l’apparente privilegio di porci domande.

Nel frattempo il treno si occupa di fare giardinaggio, rasando le foglie in eccesso dagli arbusti che ne segnano la via. I finestrini sono un turbinio di foglie tranciate. E il geco non sa che è passata un’ora nel frattempo, perché è già a casa sua e non ha nessun posto dove andare. Chi sa se per caso scenderà a Bagan?

Quando ci si trova così, davvero nella terza classe, che tanto oltre questa non saprei immaginare, quella che è “dolore, spavento, puzza di sudore dal boccaporto e odore di mare morto”, insomma, quando ci si trova in posti così ci si chiede almeno un po’ perché lo si faccia. Perché un europeo che (in teoria) può avere qualcosa di diverso si trovi qui volenteroso di vivere tutto questo, con chi la scelta non ce l’ha. Una risposta sola è difficile da trovare. Sarà il mettersi alla prova, sarà la testa dura della giovinezza, sarà che almeno per come la vedo io è sempre meglio di un posto di lavoro in ufficio da mattina a sera. Per quanto abbia il vero disagio umano di fronte agli occhi, rimane che per me sarà un momento che non dimenticherò facilmente e quest’aria in faccia, mentre si attraversa un lago dall’acqua stagnante che riflette il cielo e la luna, vale mille Eurostar, mille cuccette, o prese di corrente per il computer. Mille connessioni Wi-Fi per connettere il cellulare ed astrarsi da tutto ciò che si ha intorno per quanto sia pulito e all’avanguardia. Col finestrino sigillato oltretutto, perché tanto c’è il condizionatore. Eppure la poesia del treno sta nel finestrino, se lo si sigilla buona parte di questa se ne va. Dal finestrino entrano i rumori, come lo scatto costante del volano che è treno per eccellenza, entra l’aria che cambia al cambiare del paesaggio ed entra la vista del paesaggio stesso. La poesia del treno è la signora con un cesto pieno di cose da mangiare coperte con un panno, perché va dalla campagna alla città per un qualche giorno di festa. Ma se la poesia non c’è più non è colpa della signora che in campagna da sola non ci vuole stare, o dei treni di oggi coi finestrini chiusi. Chi li vuole più oggi i finestrini aperti? Chi la vuole più oggi la poesia del treno stessa, quando lo si prende ogni giorno per andare a lavoro? E c’è internet a tenerci compagnia.

Intanto il mio cuscino gonfiabile, di quelli ad U per il collo, l’ho dato al bimbo disteso a terra che cominciava a svegliarsi ed a piangere. Secondo me è la luce che gli dà noia, ma la mamma lo sventola preoccupata del caldo. È anche avvolto di zanzare tipo coperta, forse è per questo che sventola. Si è tranquillizzato però.

Per quanto non sia facile, e più si viaggia e più se ne perde la forza per quanto se ne guadagni in abitudine ed esperienza, è una regola che meno si spende e più ci si trova a fare esperienze intense ed ispiranti. Perché ciò che in fondo davvero si cerca viaggiando è l’ispirazione. Motivazioni per vivere la vita in modo pieno, energico ed originale. E le ispirazione sono sempre in grande quantità in ciò che è fuori dall’ordinario, in ciò che ci sciocca. Non è il fatto in sé di pagare 4 o 100 dollari, ma quello di essere dove di solito non saremmo. Per quanto sia banale dirlo, è questo ciò che ci fa sentire vivi. Che fa sentire parte di un mondo vero, come punti che avanzano e non parte di un ciclo che gira e ritorna.

In inglese dicono che “Cheap is the new cool”, cioè che oggi ciò che costa poco è alla moda e desiderabile. Classico sfizio borghese da un lato, ma anche verità dall’altro. Non per i soldi in sé, come detto, ma perché lo spendere poco ci rende sensazioni che abbiamo smesso di provare e di apprezzare. Ci obbliga in situazioni che ci sbalzano dove siamo convinti di non voler essere, ma che poi ci fanno sentire bene, nuovi. Forse perché provenendo da luoghi in cui si ha molto oggi è togliendo l’unico modo che si ha per andare fuori dall’abituale. Questo è il vero senso della frase inglese quindi, più che il riferimento al denaro: indicare la porta di accesso all’ispirazione.

Come dice G. D. Roberts in Shantaram in poche righe:

Through the sleepy night, and into the rose-petal dawn, the train rattled on. I watched and listened, literally rubbing shoulders with the people of the interior towns and villages. And I learned more, during those fourteen constricted and largely silent hours in the crowded economy-class section, communicating without language, than I could’ve learned in a month of travelling first class.

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