South Dakota, 20 Settembre 2015

Minnesota e South Dakota fin ora sono stati una piatta distesa di terre coltivate. Mais senza fine, intensivo a dir poco. Asfissiato sarebbe più corretta come definizione. Fantastici infiniti cieli azzurri fanno immaginare l’epoca in cui queste terre erano le famose praterie in cui i nativi si scambiavano segnali di fumo a chilometri di distanza. Dove si viveva seguendo le ormai quasi perdute mandrie di bisonti. Oggi sono terre consacrate alla strada e alle macchine. Ogni cittadina si ripete identica. I pedoni non esistono e a camminare lungo le strade ci si sente fuori luogo. I negozi sono enormi centri commerciali, divisi da giganteschi parcheggi. Atolli di cemento per una vita da pesci nell’acquario. Per andare da un posto all’altro non c’è altro modo che guidare. Ma spesso non ce ne è nemmeno bisogno, visto che i negozi vendono tutto e il contrario di tutto. Migliaia di metri quadrati di cibo, vestiti, gadget, elettronica, campeggio, motori. Si può entrare in un Walmart qualunque e trovarvi più scelta d’acquisto che in un’intera cittadina italiana. E poco più in là non mancherà un K-Mart con l’esatta identica offerta, spesso delle stesse marche e a prezzi similari. E poi un Dollar-store, dove tutto si ripete nuovamente ma solo per oggetti di bassa qualità, con un odore di plastica nell’aria da far invidia ad una fabbrica cinese. Tra qualche ora di guida ci attendono le Badlands e Mount Rushmore, il più pacchiano monumento al gigantismo statunitense. Gli enormi volti dei principali Presidenti intagliati nella pietra di un luogo sacro ai popoli nativi. Gli Stati Uniti d’America, dove patriottismo e isolamento culturale si tengono a braccetto. Il patriottismo è un senso d’unità, ma verso l’esterno, verso l’altro. Non ci sarebbe alcun bisogno di esaltare la patria se non ci fosse un “altro” verso cui innalzarla. Ma è al contempo un paese in cui l’altro non esiste, non è che un’idea lontana narrata come un mito dalla televisione, oltre i campi di mais e girasoli, oltre i vetri oscurati delle macchine.

Negli Stati Uniti ti svegli da Walmart chiedendoti cosa ci fai tra quei mille scaffali pieni di cibo colorato e magliette per ogni evenienza. Poi qualche centinaio di chilometri dopo, Walmart e le praterie lasciano il posto ad un canyon fatto di guglie e striature d’ogni colore. Le Badlands. Le terre inospitali fuggite da ogni colono e sicuro rifugio dei popoli nativi. Sembrano giochi di sabbia di un bambino. Un castello franato, colpito dalle onde, con i tetti delle sue torri che colano per millenni lungo le mura e i bastioni, fino alla terra. Il suolo è solcato da canali che in principio sono i canyon stessi e poi si stringono fino a farsi crepacci. Le striature di colore segnano le epoche delle sedimentazioni di una montagna ormai vicina a farsi pianura. Una montagna anziana e sconfitta, ridotta allo scheletro, col rosso del cuore scoperto. Nei millenni ha visto più di quello che è possibile immaginare. Picchi innevati, fiumi gloriosi nel loro scrosciare lungo verdi vallate. Ere di ghiaccio, dal freddo perenne. Fino al sole cocente di oggi. Con poche rade chiome a far ombra. Rari anfratti a proteggere dal vento.

Tutto intorno è la pianura più sconfinata cui si possa pensare. Con solo un lieve oscillare della superficie terrestre con curve gentili lungo i grandi altipiani. Prati che variano dal verde al giallo a coprire chilometro dopo chilometro fin dove si può guardare. Mucche e tori dalle grandi corna con la testa piegata a terra che brucano e vivono lentamente, al ritmo del sole. E così via, fino alle prossime montagne e poi le piane e poi le nuove montagne fino al mare. Al Pacifico. Ancora lontano, oltre le Montagne Rocciose e le sue bufere.

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